Profitto, marketing etico e responsabilità sociale d’impresa
Se leggi questo articolo, sei tra quelli che sono vicini al buffet di questo grande festino della vita.
Ci basta allungare la mano per prendere qualche buona tartina. Poi, con pochi passi torniamo al divanetto, dove il bicchiere di plastica ha il nostro nome scritto col pennarello. A volte bisogna fare la fila sperando che il vassoio del roast beef non finisca; a volte si sgomita un po’; ma se non ci si schifa di ungersi le dita, qualcosa riusciremo a prendere.
Sì, sto parlando di business: quel festino dove, nonostante l’austerity degli anni ‘70 e la crisi del 2008, la musica è un po’ sempre la stessa.
A un certo punto, la maionese sulle tartine era fatta con uova in polvere deposte da galline ingabbiate e private del becco per evitare che si ferissero a vicenda in preda a crisi nervi per essere costrette a mangiare a ciclo continuo sotto lampade che riproducevano un finto giorno infinito senza le improduttive pause notturne; gli addensanti, coloranti e conservanti garantivano una costante identità del prodotto senza troppo incidere sulla verosimiglianza del sapore.
Quando gli obesi e i malati di gastrite cominciarono a impattare troppo sulla tappezzeria del fondo della sala, si pensò che “biologico” sarebbe stato meglio.
Questo per quanto riguarda il cibo: una necessità fisiologica incontrovertibile, correlata – per noi popoli vicini al buffet – con un piacere privato, godibile anche in convivialità, socialmente consentito, che sembrerebbe esentarci da scrupoli etici.
Discorso analogo per i consumi energetici. Quando l’inquinamento cominciò a far tossire, come il troppo fumo di sigarette alla moda nei festini di quando gli odierni cinquantenni erano ragazzi, si passò alla benzina verde e adesso alle auto elettriche. Non sarà una soluzione radicale, ma sembra che ci stiamo mettendo una pezza, no?
Possiamo parlare di disparità sociali, di asservimento della cultura alla finanza e la metafora del festino resterebbe plausibile. Per quanto ci sforziamo di protrarlo nella notte, per quanto portiamo via i piatti sporchi e svuotiamo i posacenere, nessun aspirapolvere potrà rammendare le bruciature di sigaretta sui sofà e la gente che si diverte meno degli altri inizia a guardare di traverso quelli che continuano a dimenarsi al centro del salone bevendo un prosecchino nel finto flute di plastica.
DI CHI È LA RESPONSABILITÀ?
La situazione sta diventando insostenibile? La festa rischia di finire? Qualche menagramo dice che per le prossime generazioni questi festini non ci saranno più. Ma è probabile che noi non ci saremo più. I nostri figli forse saranno un po’ più incazzati di Greta che ostenta un aplomb non proprio mediterraneo, ma ci penseranno i futuri storiografi ad accusare il “deep state” o, come si dice da noi in Italia, i “poteri forti”.
Per fortuna, non tutti giocano a scaricabarile. Molte imprese si sono prese cura dell’impatto che hanno sui loro clienti, sui loro collaboratori e sull’ambiente.
Chi glielo fa fare? Bontà d’animo o cinico calcolo? In fondo, chi se ne importa; purché sia un circolo virtuoso. Una spiegazione potrebbe suonare più o meno così: se un’azienda non si curasse dei propri clienti, sarebbe costretta a trovarne sempre di nuovi; e tutti sappiamo che una legge empirica del marketing dice che acquisire un nuovo cliente costa di più che mantenere uno già acquisito. Sarebbe come un contadino che per massimizzare la produzione, sfrutti il proprio terreno. Dopo un picco di profitto, sarebbe costretto a sempre più magri raccolti. Il calcolo della funzione con queste variabili risulta graficamente in una curva che indica profitti più alti e più duraturi rispetto ai comportamenti predatori. Questi puntano a un intensivo sfruttamento del mercato nel breve termine, per poi abbandonarlo. Quindi in definitiva, seppur le pratiche per la sostenibilità avessero un costo maggiore nel breve termine, la maggiore robustezza del business porterebbe ricavi per molto più tempo grazie a clienti migliori e più fedeli.
Se i clienti sono gli stakeholder principali di qualunque business, quelli subito dopo in considerazione sono i collaboratori. Da loro dipende la qualità del prodotto o servizio. Con un ragionamento analogo, un’azienda che si cura del loro benessere (vedremo in seguito come definire il cosiddetto “benessere”) si garantisce qualità e quindi valore da vendere. Infine, tutto poggia su un certo territorio in un certo ambiente, naturale e artificiale. Nessun business potrebbe prosperare se le persone deperiscono. Nessuna persona potrebbe prosperare in un ambiente che deperisce.
Tutti questi ragionamenti sono rilevanti per le grandi aziende che attingono risorse da un vasto numero di clienti in vaste regioni, a volte multinazionali. Per questo la cosiddetta Responsabilità Sociale d’Impresa è un tema che ha riguardato in primis le big corporation. Ma in un mondo economico ormai globalizzato da molti decenni, nessuna impresa, sia pur piccola, può essere al sicuro nella sua nicchia. Perché i suoi clienti sono comunque persone esposte al gioco della macroeconomia. Inoltre, dato che questi atteggiamenti virtuosi sono purtroppo sorti in risposta a evidenti danni causati da atteggiamenti predatori e di sfruttamento sconsiderato delle persone e delle risorse ambientali, nessuno di noi è esente dal compito di contribuire, pur nel proprio piccolo, alla ricostruzione ambientale, sociale ed economica.
L’ordine di questi fattori non è casuale.
Considerando la consuetudine delle piccole imprese, la prima preoccupazione di un piccolo imprenditore è senza dubbio: guadagnare. In seguito, eventualmente gli affari mantengano una tendenza positiva: migliorare le condizioni dei collaboratori per conservare e attrarre i migliori talenti. In ultimo: preservare l’ambiente naturale e quello urbanizzato. Proprio l’opposto dell’ordine di priorità che sarebbe saggio avere. Quale società umana potrebbe prosperare in un ambiente naturale corrotto? E quale business potrebbe prosperare in una società corrotta?
Da questa pur semplice riflessione si può rilevare niente meno che l’origine del dramma che si sta “consumando” (termine tristemente appropriato). Sono bastati un paio di secoli di “civiltà” industriale perpetrata con la logica inversa, ed eccoci sulla china discendente della curva del valore. Qualcuno ha avuto l’ebbrezza di vivere sulla cresta dell’onda; e ancora oggi qualcuno vi resiste più che agiato. Ma sempre meno in numero. Sono gli ultra-ricchi, costretti a fortificare le proprietà dall’assedio degli ultra-poveri.
MA CHI PUÒ PERMETTERSI UN BUSINESS SOSTENIBILE?
Tornando a considerazioni più locali, nelle piccole imprese un cruccio è ricorrente: “come essere competitivi se le riforme che renderebbero l’impresa sostenibile, comportano maggiori costi?”
Lungi dal facile e vacuo intellettualismo, chi scrive è nato e cresciuto nella piccola impresa; e senza il supporto di una formazione accademica. Posso testimoniare direttamente di un discreto numero di imprenditori arricchiti grazie a pochi scrupoli ben conosciuti (evasione fiscale, corruzione dei clienti, sfruttamento dei lavoratori e dei fornitori…). Un altro nutrito numero sono scivolati in condizioni di lavoro deplorevoli sia dal punto di vista culturale (competenze obsolete, incapacità di identificare alternative di sviluppo, nessuna creatività…) sia da quello ambientale (strutture fatiscenti, poco rispetto delle norme di sicurezza, nessuna attenzione ecologica…).
Nel mezzo, un esiguo numero di “militi ignoti” che magari non potendo godere dei lussi dei primi, sono riusciti a mandare avanti imprese decorose, efficienti, persistenti, attente a valori poco esteriori quanto solidamente morali.
Dico subito – parafrasando una canzone di Louis Armstrong – che non conosco facili ricette per entrare nel numero di quelli che fanno marciare da santi il proprio business. Vedo piuttosto degli equilibrismi sostenuti con fatica all’inizio. Ma proviamo a dare indicazioni fuor di metafore.
Primo passo sulla fune: integrare la propria mentalità. Considerare la cosa possibile. Immaginarla conveniente. Vederne la bellezza. Innamorarsi di un ideale.
Secondo passo: introdurre migliorie nei processi di approvvigionamento delle materie prime, dell’energia, e dello smaltimento degli scarti. Acquistare una parte del materiale con una certificazione ambientale? Di tipo meno inquinante? Da aziende fornitrici più etiche? Efficientare le modalità un sistema di depurazione? Affidarsi a un’azienda di smaltimento più corretta ed efficiente? Cose di questo tipo.
Tutto questo costa un po’ di più? E vendiamolo a che è ben contento di pagarlo un po’ di più. Per esempio, potremmo documentare queste migliorie e pubblicizzarle direttamente ai clienti e sui social aziendali. Questo sarà uno degli argomenti di vendita e di selezione dei clienti migliori.
Terzo passo: migliorare le condizioni di lavoro. Ricercare maggiore responsabilizzazione dei collaboratori e maggiore loro soddisfazione e lealtà allo stesso tempo. Un miracolo? Si può fare. Innanzitutto bisogna tenere a mente i due fattori che maggiormente motivano le persone al lavoro. Non sono proprio intuitivi. Niente a che vedere con un mero aumento di stipendio. Eccoli: 1) poter partecipare alla definizione del prodotto/servizio e poterne vedere l’effetto. 2) lavorare con condizioni di welfare. Per andare verso il primo fattore, si può iniziare da colloqui o questionari per conoscere il loro parere, le loro idee di miglioramento. Si può poi continuare sponsorizzando alcuni di questi suggerimenti e permettendo di attuarli in modi e ambienti sicuri, per poi discutere i risultati, fare migliorie e infine adottarli a sistema. Poche cose danno un senso di appartenenza all’azienda come il riflettersi nei processi, negli spazi fisici, nei risultati che le persone stesse hanno creato. Non abbiamo spazio in questa sede per approfondire queste modalità, ma voglio dire che le aziende più virtuose hanno reso ciclici questi sistemi e ottengono il miracoloso “miglioramento continuo” e inoltre generato “dal basso”, cioè dai collaboratori stessi, senza dover ricorrere a direttive verticali. Per quanto riguarda il secondo fattore (welfare) si può iniziare con l’aprire alcuni spazi aziendali ai familiari, organizzando piccoli eventi, spazi dove i bambini possano stare accanto ai genitori al lavoro, modalità di facilitazione dei trasporti, implementare alcuni servizi che possono migliorare il livello di serenità durante le ore lavorative: da semplici aree di svago e riposo, a servizi di baby sitting, o di cura dei genitori anziani… Anche qui ci sono molti esempi virtuosi, e anche qui si inizia… cercando, studiando e inventando come applicarli alla propria realtà.
Infine un cenno semplice al marketing etico declinato per le piccole imprese. Poter invitare i propri clienti a respirare l’aria che tira in azienda, non è forse uno dei migliori biglietti da visita? La faccia de venditori che trasmettono la fiducia e l’apprezzamento verso la propria aziende non è forse un argomento molto convincente?
Tutto questo, all’inizio è un piccolo rigagnolo di iniziative che rischia di asciugarsi se non alimentato con un certo impegno; ma in seguito si può trasformare in un torrente e poi in un fiume che sfocia in un sostanziale risultato economico.
Soldi come risultato di un lavoro ben fatto. Creazione di valore come innesco di un’economia virtuosa. Dare qualcosa prima di attendersi di ricevere.
Non sarebbe… un bell’affare?