Greenwashing: che cos’è, come evitarlo
- Cosa s’intende con il termine greenwashing? Qualche cenno storico
- Greenwashing, come riconoscerlo: le manifestazioni principali e le sue conseguenze
- In che modo le aziende possono evitare il greenwashing?
Comunicazione a tutto tondo, dal packaging dei prodotti alle loro etichette, fino a campagne sui media, réclame offline e online e persino bilanci societari: l’onda di “lavaggio verde” è in grado di travolgere ogni canale commerciale e di comunicazione.
Più nello specifico, con il termine greenwashing s’intende quell’insieme di pratiche e di linguaggi comunicativi che hanno l’obiettivo di “ripulire” la reputazione di brand, imprese, personaggi noti, orientando l’opinione pubblica verso una presunta sensibilità ai temi della sostenibilità in generale. Punto essenziale del greenwashing è che chi lo pratica mente o distorce i dati e la realtà riguardante il proprio impegno e le promesse fatte.
“Trasparenza, chiarezza e correttezza sono i principi che devono ispirare la comunicazione della sostenibilità”, si legge nel saggio “Verde, anzi verdissimo: comunicare la sostenibilità evitando il rischio di greenwashing” di Rossella Sobrero, che sottolinea due differenti strade che può intraprendere questo fenomeno: se, da una parte, può essere definito come “il figlio degenere di un buon padre quale è il marketing verde”, dall’altro lato il greenwashing può essere definito anche come il lato oscuro della sostenibilità, “per ricordare il danno che può essere realizzato da chi decide di utilizzare parole e immagini che cercano di migliorare la reputazione di un’impresa senza che vi sia stato un cambiamento reale nel suo operato”.
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Cosa s’intende con il termine greenwashing? Qualche cenno storico
Il termine greenwashing proviene dall’inglese ed è composto dall’unione delle parole green (“verde”, simbolo dell’ecologismo) e washing, “lavare”, che a sua volta richiama il verbo whitewash ossia imbiancare, “dar la calce” e quindi coprire, nascondere.
Le sue manifestazioni più frequenti, da parte di aziende e brand ma anche di singoli individui (si pensi, ad esempio, a esponenti del mondo politico), consistono nell’utilizzare messaggi e dichiarazioni ingannevoli per far sembrare una realtà più ecologica di quanto lo sia davvero.
La Commissione europea ha definito il greenwashing come “l’appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di un’immagine verde”. Sotto il profilo giuridico, nel nostro Paese viene annoverato tra le pratiche commerciali scorrette e sanzionato dall’Autorità nazionale della concorrenza e del mercato.
Nel marketing, il termine ha assunto la connotazione di strategie di comunicazione per sostenere e valorizzare la reputazione ambientale delle imprese e dei brand attraverso richiami all’ambiente nella comunicazione istituzionale e di prodotto: tutto questo non supportato da dati credibili sull’effettivo miglioramento delle policy interne e dei processi produttivi adottati né da risultati reali.
Secondo Sobrero, la pratica del greenwashing affonda le sue radici negli anni Ottanta del secolo scorso e precisamente nel 1986, quando l’ambientalista Jay Westerveld pronunciò per la prima volta questo termine per denunciare la pratica comune degli alberghi di far leva sul senso di responsabilità ambientale dei clienti per non chiedere quotidianamente il cambio di biancheria. Secondo Westerveld, l’obiettivo era principalmente economico e legato del tutto al contenimento dei costi di gestione.
Ancora prima di Westerveld, a cui va il merito di aver introdotto il termine greenwashing nel nostro linguaggio comune, già negli anni Sessanta gli ambientalisti attivi contro il nucleare avevano messo in dubbio le dichiarazioni della divisione nucleare dell’azienda americana Westinghouse circa la sicurezza e la pulizia della loro centrale situata in riva a un lago.
Potremmo dire, insomma, che ancor prima di avere un termine di riferimento, a metà del secolo scorso chi aveva a cuore la sostenibilità ambientale osservava già comportamenti poco trasparenti nei confronti dei consumatori.
Greenwashing, come riconoscerlo: le manifestazioni principali e le sue conseguenze
Riconoscerlo per evitarlo: il greenwashing non sempre è facilmente identificabile, tutt’altro. Come negli episodi descritti sopra, può capitare che una comunicazione su presunte azioni virtuose contenga in realtà bugie o importanti omissioni sull’impatto dell’azienda sul Pianeta.
Se ci riflettiamo, è proprio quanto sta accadendo oggi con il mondo del fast fashion: aziende di moda poco o per nulla sostenibili, che spesso sfruttano lavoratori nelle zone più povere del mondo, adottano comportamenti e strategie di comunicazione corporate per mostrare un “lato buono” che non esiste, con promesse che non corrispondono a risultati concreti.
Non è ovviamente l’unico caso: il greenwashing può assumere diverse forme e manifestarsi in molteplici modi. Alcuni esempi comuni includono:
- dichiarazioni vaghe o generiche: le aziende possono utilizzare termini come “ecologico” o “amico dell’ambiente” senza fornire dati concreti o specifici sulle pratiche sostenibili adottate.
Secondo i dati della Commissione europea, il 53% dei “green claims” (le reclame che evidenziano l’aspetto ecologico di un prodotto) offrono informazioni “vaghe, ingannevoli o infondate”. Il 40% di essi non ha prove a sostegno di quanto afferma.
- etichette ingannevoli: l’applicazione di etichette ecologiche o di certificazioni non verificate può creare l’illusione di sostenibilità, senza che vi sia una vera base di sostegno.
Sempre secondo i dati della Commissione europea, esistono oggi 230 etichette di sostenibilità e 100 etichette di energia green tra i Paesi dell’Unione Europea, con livelli di trasparenza molto diversi tra loro. Inoltre, un’etichetta “green” su due offre evidenze deboli o inesistenti.
- omissione di informazioni rilevanti: l’azienda può scegliere di non divulgare informazioni importanti sugli impatti ambientali del proprio processo produttivo o sulle pratiche di gestione dei rifiuti.
- esagerazione dei risultati: alcune aziende gonfiano i dati o presentano risultati ecologici insignificanti come successi significativi, per far sembrare il loro impegno per la sostenibilità maggiore di quanto sia in realtà.
In un’epoca in cui i consumatori sono sempre più informati e consapevoli, le conseguenze del greenwashing sono come un boomerang, con il potere di ritorcersi contro l’azienda o il brand che ha portato avanti le pratiche scorrette.
Le imprese che ricorrono al greenwashing rischiano quindi, in primis, di danneggiare la loro reputazione e di perdere la fiducia dei consumatori. Quando i clienti scoprono che le promesse di sostenibilità sono solo superficiali, possono sentirsi traditi e abbandonare il marchio. Questo può avere un impatto significativo sulle vendite e sulla redditività dell’azienda nel lungo periodo.
D’altra parte, i consumatori possono essere indotti in errore dalle pratiche di greenwashing, acquistando prodotti o servizi che credono essere ecologici, ma in realtà non lo sono. Questo può portare a un’illusione di sostenibilità e a una minore consapevolezza delle scelte effettivamente sostenibili disponibili sul mercato. Inoltre, il greenwashing può danneggiare chi fa sforzi concreti per combattere i problemi ambientali reali, creando la sensazione che le dichiarazioni di sostenibilità siano non raramente false, con dati gonfiati o basate su promesse che non verranno realizzate, creando quindi sospetto e sfiducia anche nei confronti di chi le cose le fa sul serio.
I danni da greenwashing subiti da grosse aziende multinazionali rappresentano nel mondo del marketing casi studio interessanti, ricordati come errori da non ripetere.
A titolo di esempio rammentiamo il caso Coca Cola citata in giudizio nel 2021 dall’ Earth Island Insitute per le campagne ingannevoli sulla sostenibilità ambientale del brand (tra le altre, la campagna di comunicazione “Every Bottle Back” e “World Without Waste”, e l’affermazione dell’azienda che le sue bottiglie di plastica e i tappi fossero progettati per essere riciclabili al 100%) e il caso di IKEA, accusata nel 2020 dal gruppo ambientalista britannico Earthsight di essersi rifornita di legname abbattuto in modo illegale proveniente dalla Russia e dall’Ucraina.
In che modo le aziende possono evitare il greenwashing?
Gli imprenditori responsabili sono consapevoli che, oggi più che mai, è essenziale evitare pratiche ingannevoli come il greenwashing, concentrandosi invece su un approccio autentico e basato su dati concreti per ridurre l’impatto ambientale delle proprie aziende.
Cosa fare, dunque, per non cadere nella trappola di “ripulire” la propria reputazione con affermazioni fuori dalla realtà e/o falsi intenti legati alla sostenibilità? Abbiamo provato a riassumere 4 pilastri su cui basare le strategie commerciali e comunicative di una PMI che non vuole incorrere in questo rischio:
- Trasparenza e veridicità: le aziende dovrebbero fornire informazioni precise e verificabili sulle proprie pratiche sostenibili. Dati concreti e metriche di misurazione dell’impatto ambientale possono dimostrare l’effettivo impegno verso la sostenibilità.
- Certificazioni riconosciute: oggi le imprese possono ottenere certificazioni ambientali da organismi terzi indipendenti per confermare la loro credibilità. Alcune certificazioni autorevoli includono l’EU Ecolabel, il marchio Fairtrade e la certificazione B Corp.
- Educazione dei consumatori: fornire informazioni chiare e trasparenti sui prodotti o servizi in modo che i consumatori possano prendere decisioni consapevoli. Educare i clienti sulle pratiche sostenibili e promuovere una maggiore consapevolezza contribuisce a contrastare il greenwashing.
- Coinvolgimento degli stakeholder: coinvolgere i dipendenti, i fornitori e gli investitori nella transizione verso una maggiore sostenibilità offre un indispensabile aiuto all’impresa nel garantire un impegno autentico e un impatto positivo sull’ambiente.
È solo attraverso un vero impegno per la sostenibilità e la trasparenza che possiamo costruire un futuro migliore per noi e per le generazioni future.
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